STRANIERO PREDONE O FILANTROPO?

STRANIERO PREDONE O FILANTROPO?

Gio, 02/13/2025 - 22:18
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Gli stranieri che acquistano aziende in Italia fanno profitti ma sostengono lavoro e sviluppo

.italia

Negli anni ’80 del secolo scorso l’Inghilterra si trovava nel bel mezzo di una crisi economica e industriale di grade portata, ben diversa dal fisiologico andamento dei cicli produttivi: non si trattava di una fase bassa del ciclo, ma di una vera e propria patologia strutturale, dove la storica potenza dell’industria inglese stava scivolando su un piano inclinato che sembrava senza ritorno. La recessione stava minando le basi del più antico sistema produttivo del mondo, che dai tempi della rivoluzione industriale aveva costruito il grande capitalismo, una classe operaia forte e combattiva e diffuso benessere secondo i dettami del capitalismo di stampo liberista. L’inflazione ancora mordeva, dopo la crisi petrolifera del decennio precedente, la disoccupazione stava provocando disordini in tutto il paese, e – i guai non vengono mai da soli – il terrorismo di matrice autonomistica degli irlandesi sembrava in procinto di assestare colpi mortali alla più antica democrazia del mondo moderno.

In tutto questo, il forte nazionalismo britannico stentava sempre più a riconoscersi nella grande impresa che aveva conquistato il mondo, nella riedizione dell’imperialismo che aveva caratterizzato il Novecento.

Fu allora che, come un coniglio dal cilindro, si affermò la leadership di Margaret Thatcher, una dei maggiori leader europei forse non ancora pienamente apprezzata nella sua prospettiva storica. La sua intuizione – che oggi, in epoca di globalizzazione, potrebbe sembrare banale – fu quella di rinunciare al “sovranismo” azionario britannico a favore del mantenimento dei siti produttivi.

In altri termini, la Thatcher comprese che non era tanto importante avere campioni nel settore industriale e finanziario che fossero inglesi, ma assicurare che, chiunque fosse il proprietario e qualunque fosse la sua nazionalità, venisse mantenuto nell’isola l’assetto produttivo e quindi, a cascata, il lavoro e l’indotto. Così la Gran Bretagna perse il controllo azionario di aziende e banche, ma mantenne gli stabilimenti, la produzione e il reddito.

.delocalizzazione

In effetti, ancora oggi non esistono più banche inglesi fra le prime 10 mondiali e 20 europee, ma la piazza finanziaria di Londra è sempre la più importante del vecchio continente; né esistono aziende a controllo inglese fra le maggiori del continente, ma l’assetto industriale (nonostante la Brexit) è sempre molto robusto.

Quando si sente dire che l’Italia sta svendendo i gioielli di famiglia agli stranieri, e che stiamo subendo una nuova ondata di invasioni barbariche, dopo la quale non saremo più padroni del nostro sistema produttivo e delle eccellenze in molti settori industriali, bisognerebbe ripensare all’esempio dell’Inghilterra thatcheriana. Ma poi non è affatto vero che siamo esposti alle conquiste degli stranieri, perché allo stesso tempo i nostri connazionali stanno sbarcando con successo in altri paesi e costruendo realtà multinazionali a controllo tricolore. Andiamo con ordine.

.fashion

È vero che nei settori tecnologici e ad alta specializzazione da soli non andiamo da nessuna parte, come ad esempio ha fatto Leonardo che ha costituito joint-ventures anglo-franco-americane, secondo lo schema di Airbus o di STM. Ma anche nei settori più tradizionali di moda, fashion e design, l’intervento dei gruppi esteri (in questo caso dei fondi di private equity) è servito per dare un assetto efficiente e profittevole ad aziende di tipo familiare che non erano in grado, da sole, di affrontare la concorrenza mondiale ed erano affossate dai problemi del passaggio generazionale.

In molti casi è stato proprio l’intervento degli stranieri a evitare fallimenti che avrebbero travolto aziende, lavoratori, indotto e spesso interi distretti, come è successo con la Parmalat. L’intervento di Lactalis, della famiglia francese Bernier, ha consentito nel 2011 di riportare in attivo lo storico marchio parmense, devastato dalle acrobazie finanziarie della famiglia Tanzi. Non è stato perso un solo posto di lavoro e oggi Lactalis rappresenta il primo conglomerato produttivo del nostro paese nel settore dell’agroindustria, con marchi come Galbani, Invernizzi, Locatelli. Con 31 stabilimenti e 5.300 dipendenti, il gruppo ha proprio in Italia il suo mercato di maggior rilievo dopo la Francia.

.competitività

Analogamente, nel settore della birra, gli storici marchi italiani sono stati acquisiti da gruppi esteri che ne hanno consentito la sopravvivenza e il ritorno alla redditività: la giapponese Asahi con Peroni, l’olandese Heineken con Moretti, Dreher e Ichnusa.

Oppure nel fashion, dove la storica eccellenza italiana ha ormai dimensioni ridicole rispetto ai competitors esteri: il primo gruppo italiano è Prada, solo al 18° posto mondiale con circa 5 miliardi di fatturato, poi c’è Moncler che è  27° con 2 miliardi. I concorrenti si chiamano Lvmh (317 miliardi di fatturato); Kering (250), Hermes (213). Molto meglio Gucci, oppure Valentino, che sono stati acquisiti dalla stessa Kering; oppure Pal Zilieri , rilevato da Mayhoola, fondo sovrano del Qatar.

D’altra parte, anche i nostri connazionali si sono rivelati molto dinamici sui mercati esteri. Ha fatto scalpore il tentativo di acquisizione di Commerzbank da parte di Unicredit, tuttora in corso. Per ora la banca di Piazza Gae Aulenti possiede il 9 per cento dell’istituto tedesco, ma è in attesa di autorizzazione dalla BCE per salire al 29%. Questo ha scatenato la reazione del governo di Berlino, che aveva salvato la banca dal fallimento nel 2008, ma il supervisore europeo è favorevole, e la normativa comunitaria è chiaramente orientata ad agevolare le operazioni transfrontaliere e a impedire rigurgiti di sovranismo, ormai chiaramente fuori del tempo e fuori del mercato.

Ma l’esempio di Unicredit non è isolato: Finmeccanica controlla la britannica Westland (che produce, fra l’altro, gli elicotteri Agusta); Ferrero ha consociate e sussidiarie un po’ in tutto il mondo; Enel controlla dal 2006 la spagnola Endesa; Mediaset ha aziende in Francia e Germania. E anche su livelli dimensionali inferiori, non mancano esempi di multinazionali che hanno fatto, e continuano a fare con successo, shopping all’estero: Amplifon, Angelini, Chiesi Farmaceutici, Campari, Menarini, Prysmian.

Non è più il caso di demonizzare gli stranieri che investono da noi: spesso non si tratta di acquistare a prezzo di saldo i gioielli di famiglia, ma di offrire opportunità di sviluppo ad aziende che da sole non ce la farebbero. I confini nazionali stanno palesemente stretti al mondo del ventunesimo secolo.