CON POCHI O CON TANTI CONTANTI
Obiettivi e strumenti della politica monetaria
Torniamo a parlare di politica monetaria, riprendendo il discorso iniziato nel precedente editoriale[1]. Eravamo partiti dal concetto di equilibrio economico generale, l’araba fenice che gli economisti classici ponevano come obiettivo da perseguire nei sistemi economici per assicurare il migliore dei mondi possibili. Peccato che in natura l’equilibrio non esista (salvo condizioni transitorie perlopiù casuali), essendo necessarie perfezione del mercato, assenza di distorsioni, di asimmetrie informative e di posizioni dominanti.
È quindi necessario, secondo l’insegnamento di John Maynard Keynes, l’intervento mirato dello Stato nei momenti in cui si verificano condizioni di particolare criticità, con conseguenze sul reddito nazionale, sull’occupazione, sul livello dei prezzi. Gli strumenti a disposizione del Governo sono quelli che costituiscono la politica economica e, in particolare, la politica di bilancio (attraverso la spesa pubblica che è parte del reddito nazionale), la politica fiscale (attraverso le imposte che determinano il reddito disponibile) e la politica monetaria. Quest’ultima, che agisce sulla quantità di moneta in circolazione, ha conseguenze dirette e immediate non solo sulle variabili economiche del sistema, quali produzione, investimenti, consumi, reddito, occupazione e livello dei prezzi, ma anche sui mercati finanziari. Vediamo come e perché.
La politica monetaria è gestita dalle banche centrali: in Europa la BCE (Banca Centrale Europea), il cui direttorio è costituito dai governatori delle banche centrali dei paesi membri; negli Stati Uniti la FED (Federal Reserve Bureau); nel regno Unito la Bank of England e così via. Si può discutere se sia eticamente corretto che tecnocrati non eletti (e che non devono rispondere del loro operato agli elettori) possano incidere in modo così forte sulle condizioni di vita di molte persone. Ma così è: hic Rhodus, hic saltus.
Il fine ultimo delle autorità monetarie è, dunque, quello della stabilità dei mercati, che viene soprattutto declinato come controllo del livello dei prezzi, ovvero contenimento dell’inflazione, un fenomeno di cui l’attuale generazione di funzionari non ha avuto esperienza diretta, ma che l’ha solo studiata sui libri dell’università. Dopo la grande inflazione degli anni ’70 del secolo scorso, che da noi arrivò a superare il 20%, abbiamo vissuto un lungo periodo di stabilità di prezzi, che fino a un paio di anni fa si è addirittura trasformata in deflazione.
Poi è arrivata la pandemia, con la necessità di assicurare al sistema condizioni di liquidità che potessero agevolare un rapido recupero e comunque evitare crisi che potevano essere molto gravi. E la cura da cavallo ha prodotto, con la ripresa economica del post-Coronavirus, il ritorno dell’inflazione.
A questo punto la politica monetaria è diventata fondamentale per recuperare condizioni di stabilità e buon funzionamento sia del sistema produttivo (che governa consumi e investimenti), sia di quello finanziario (mercato delle azioni e delle obbligazioni, credito bancario, liquidità del sistema).
La modalità operativa delle banche centrali, in estrema sintesi, è articolata attraverso obiettivi intermedi, che sono i tassi di interesse, la quantità di moneta e il credito bancario, sui quali si interviene con gli strumenti tipici della politica monetaria: operazioni di mercato aperto, coefficienti di riserva obbligatoria e controlli amministrativi. Di fatto lo strumento di gran lunga più importante, sia a livello quantitativo che come efficacia di attuazione, è il primo, che consiste nell’acquisto o vendita sul mercato di titoli di Stato (ma anche di titoli corporate, ovvero emessi da intermediari finanziari).
Gli altri due strumenti sono di natura più tecnica e, per semplicità, non ci soffermeremo più di tanto sul loro funzionamento. Diciamo solo che il coefficiente di riserva obbligatoria delle banche determina quanta moneta le banche possono creare a partire da una certa variazione dei depositi.
Come è definita la quantità di moneta? Si utilizzano tre concetti diversi, a dimensione crescente nel senso che ognuno comprende il precedente più altri elementi. Quello di base è indicato con M1 e comprende il cosiddetto circolante, ovvero le banconote e le monete, e i depositi bancari e postali a vista, cioè tutte quelle attività che sono accettate come mezzi di pagamento. Il successivo è M2, che oltre al precedente comprende gli strumenti ad elevata liquidità, come i depositi a scadenza breve, che possono essere convertiti (facilmente ma con qualche restrizione) in strumenti di pagamento. Infine, abbiamo M3, che oltre M2 comprende gli strumenti emessi da primarie istituzioni finanziarie, caratterizzati da convertibilità in strumenti liquidi senza rischi e con certezza di prezzo ma a scadenza differita, come le operazioni pronti contro termine, le obbligazioni bancarie entro i due anni di scadenza, le quote di fondi comuni monetari.
L’offerta di moneta si misura attualmente, in Europa, con M3, considerata più stabile, mentre la FED utilizza M2. Come si vede dalle definizioni, i soggetti che la definiscono sono le banche centrali e le banche ordinarie.
Cosa succede con le operazioni di mercato aperto? Semplicemente che la banca centrale opera sui mercati dei titoli obbligazionari acquistando o vendendo titoli del proprio portafoglio. Se acquista titoli, poiché immette moneta sul sistema in contropartita degli acquisti, svolge una politica espansiva che favorisce l’aumento di produzione e reddito, soprattutto attraverso la diminuzione dei tassi di interesse che questi acquisti determinano. Con più moneta in giro, il credito diventa più facile e meno costoso, gli acquisti di beni di consumo e di investimenti vengono favoriti, ma il livello dei prezzi tende ad aumentare.
Quando invece i titoli vengono venduti, si verifica l’esatto contrario: la moneta diminuisce, i tassi tendono a crescere, la produzione e i consumi ne vengono penalizzati ma i prezzi si comprimono. Per questo si parla di politica restrittiva, come nell’attualità.
Nella strategia delle banche centrali, si stabilisce una policy che – a seconda dei fondamentali dell’economia, delle previsioni e degli obiettivi – può essere quindi espansiva o restrittiva. Quella espansiva comporta programmi di acquisti periodici e sistematici di titoli che, in gergo tecnico, sono definiti “quantitative easing”, ovvero facilitazione o stimolo della quantità di moneta in circolazione; quella restrittiva – al contrario – comprende vendite sistematiche di titoli che sono definite “quantitative tightening”, ovvero restrizione quantitativa.
Nel primo caso i tassi di interesse aumentano, favorendo le imprese (che possono più agevolmente indebitarsi per aumentare produzione e profitti) e quindi il mercato azionario viene rese più attrattivo. Imprese più redditizie fanno infatti prevedere maggiori dividendi e utili per chi compra. Per questo nelle fasi espansive della politica monetaria i mercati azionari crescono; mentre quelli obbligazionari si contraggono, penalizzati dai minori rendimenti dovuti ai tassi inferiori.
Al contrario, quando la politica monetaria si fa restrittiva, le aziende in prospettiva vengono penalizzate e, per questo, sui mercati azionari prevalgono le vendite e i prezzi si abbassano, mentre le obbligazioni sono favorite dai rendimenti in crescita. Allo stesso tempo, con minore quantità di moneta in circolazione e reddito in contrazione, i prezzi inevitabilmente si raffreddano e l’inflazione tende a scendere.
Ecco spiegato il motivo della forte reattività dei mercati finanziari alle scelte di politica monetaria e perché in questa fase ci si attende una recessione (che tarda a venire ma prima o poi arriva), un calo dei mercati azionari e una ripresa di vigore dei mercati obbligazionari.
[1] Si veda “Facciamo il punto sulla politica monetaria”, editoriale del 23/2/23 in https://www.marcoparlangeli.com/2023/02/20/facciamo-il-punto-sulla-politica-monetaria
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