SIAMO ARRIVATI AL CAPOLINEA
L’inflazione potrebbe aver raggiunto il suo picco e forse la recessione, almeno in Europa, non sarà così terribile
Il capolinea a cui siamo arrivati non è – ahimè - quello della politica italiana, dopo la sconfortante dimostrazione andata in scena con l’incomprensibile crisi del governo Draghi, perché in questo caso dopo aver toccato il fondo si può, purtroppo, ancora scavare e temiamo una frenetica attività di perforazione con l’imminente campagna elettorale. Il capolinea a cui siamo arrivati è probabilmente quello dell’inflazione.
Intendiamoci: non che da domani i prezzi inizino a diminuire (questo non accadrà), ma riteniamo molto ragionevole attendersi che la spirale di aumento del costo della vita, che va avanti da ormai due anni, abbia raggiunto la sua velocità massima e che da qui in avanti la crescita dell’inflazione cominci a decelerare, soprattutto in USA, dopo aver raggiunto e superato in termini effettivi il 10%. Allo stesso tempo è probabile che la tanto temuta recessione si possa rivelare meno severa di quanto viene ritenuto, soprattutto in Europa e in Asia.
Probabilmente e auspicabilmente stiamo quindi per entrare in un mondo economicamente più vivibile rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, a meno di ulteriori cigni neri che, dopo pandemia, guerra, carestia, cavallette, siccità e incendi, stanno diventando – più che eccezioni rare e imprevedibili – decisamente troppo frequenti.
Vediamo perché e, soprattutto, cerchiamo di capire come dovrebbe comportarsi il nostro investitore razionale e prudente per limitare i rischi del proprio portafoglio, prendere qualche beneficio in chiave tattica e attrezzarsi per il mondo che verrà non fra dieci anni ma da qui all’inverno e alla fine dell’anno.
Ci sono buone ragioni per aspettarsi – soprattutto negli Stati Uniti – che l’inflazione rallenti la sua marcia trionfale dopo aver raggiunto il massimo storico.
In primo luogo, per effetto della politica decisamente restrittiva intrapresa dalla FED (la banca centrale USA) con aumento dei tassi (l’ultimo dei quali, di 0,75% su base annua, è quello più robusto degli ultimi decenni) e drenaggio della liquidità attraverso la vendita di titoli di Stato sul mercato. In secondo luogo, perché la domanda verrà frenata dall’aumento della disoccupazione[1], che dall’attuale minimo del 3,6% arriverà a superare il 4% - e forse di più – e dal ridimensionamento del dollaro che, dopo aver raggiunto la parità con l’euro, tornerà a livelli più contenuti. In vista della fondamentale scadenza elettorale dell’autunno, con le elezioni di Midterm che rischiano di azzoppare definitivamente il già claudicante Joe Biden, il governo farà di tutto per non arrivare alle urne con alta inflazione, mercati depressi, dollaro forte e politica ancora ferocemente restrittiva della FED.
Anche i prezzi delle materie prime e delle commodities, dopo essere schizzati verso l’alto con la guerra russo-ucraina e i tagli della produzione sia di petrolio che di gas naturale, sono tornati a scendere. Biden ha messo sul mercato le sue riserve petrolifere, la Cina - dopo le scorte a mani basse dell’energia comprata dai russi in seguito alle sanzioni economiche – ha molto rallentato gli acquisti e gli altri paesi emergenti stanno ritardando l’atteso sviluppo economico. Inoltre, la disponibilità di materie prime per l’industria (metalli e semiconduttori), dopo le strozzature dei mesi scorsi, è tornata piuttosto regolare grazie anche alla riapertura completa dei porti cinesi dopo i lockdown.
Sono quasi tutti effetti temporanei, sia chiaro, perciò non è consentito (ancora) cantare vittoria. Ma tutti questi effetti, influenzando le aspettative degli operatori, sono essi stessi forieri di un trend di rallentamento dei prezzi.
In Europa la dinamica non sarà così evidente, perché non siamo al livello di piena occupazione e quindi, salvo improbabili[2] blocchi totali di gas russo, che porterebbero un calo del PIL calcolato intorno al 6%, la domanda aggregata ha margini di crescita ancora ampi, anche perché si parte da un livello di inflazione più basso e una situazione economica meno brillante di quella americana, per effetto soprattutto della guerra di Putin. Per lo stesso motivo, però, i timori per la recessione potrebbero da noi essere eccessivi: è vero che la componente manifatturiera è rallentata, ma i servizi stanno invece crescendo e la disponibilità di mano d’opera non occupata fornisce un margine di recupero notevole.
La sensazione è che la recessione temuta sia stata sopravvalutata e che gran parte degli effetti, anche per quando riguarda le aspettative, siano già stati scontati nei comportamenti degli operatori e quindi già riflessi nei prezzi di mercato.
In effetti sui mercati, per la prima volta dopo sei mesi durissimi, si cominciano a vedere segnali confortanti con rimbalzi più frequenti e cadute meno ripide e più brevi. Gran parte dei grandi investitori hanno infatti stabilizzato i loro investimenti, dopo aver contabilizzato le perdite e venduto a piene mani in stop-loss[3] e ora sono più disponibili a prendere nuovi rischi. I multipli sono tornati in genere a livelli più normali e sostenibili e l’ipervenduto è notevolmente ridotto. Parallelamente la volatilità è però cresciuta in modo sensibile.
Si tratta però, a nostro avviso, più di movimenti transitori di un mercato ancora bearish (ovvero dominato dai venditori, con prezzi tendenzialmente in calo) che non di veri e propri segnali di inversione di tendenza. Quindi, come si diceva, è ancora troppo presto per cantare vittoria e ricominciare a comprare a mani basse.
Tuttavia, è forse arrivato il momento, per chi ha un orizzonte temporale a breve termine, di ricominciare a fare qualche incursione sul mercato azionario, in modo ragionato e selettivo, nei momenti di flessione. Per chi guarda, invece, al medio termine (12-18 mesi) è ancora meglio rimanere prevalentemente liquidi, cominciando però a guardarsi intorno soprattutto nei settori immobiliare e automotive. Il mercato obbligazionario è ancora da tenere a debita distanza, come pure le economie sovra-indebitate e strutturalmente fragili, come l’Italia.
Forse non siamo ancora tornati a riveder le stelle, ma il periodo più brutto potrebbe essere davvero vicino alla fine.
[1] Se aumenta la disoccupazione, diminuisce la crescita dei salari e del costo del lavoro e, inoltre, la domanda (meno occupati guadagnando meno consumeranno anche di meno e le imprese rallenteranno gli investimenti) flette, disincentivando l’aumento dei prezzi.
[2] Riteniamo improbabile il blocco totale delle forniture russe perché, dopo aver esaurito la domanda cinese, lo zar non vorrà privarsi di una preziosa fonte di entrata, una delle poche ormai, peraltro a prezzi notevolmente cresciuti rispetto allo scorso anno. E soprattutto perché vorrà mantenere la spada di Damocle sull’Europa ancora per lungo tempo centellinando il gas.
[3] Lo stop-loss è il meccanismo di vendita automatica che gli investitori impostano allorché un determinato titolo in portafoglio diminuisca fino al prezzo indicato. Questo evita perdite che risulterebbero non sostenibili e deprime ulteriormente il mercato, quando si verifichi in modo generalizzato.
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