AMERICA THE BEAUTIFUL
Gli USA sono sempre stati il paese dei nostri sogni, ma anche di grandi contraddizioni
Indipendentemente dalle valutazioni che ciascuno di noi può fare sulla guerra, una cosa è chiara: ben pochi, messi a scelta, preferirebbero vivere in Russia o in Cina piuttosto che negli Stati Uniti. È infatti evidente che nei regimi democratici dell’Occidente si vive molto meglio che non nei regimi autoritari, in cui le libertà personali sono fortemente limitate.
Non si deve però trascurare la forza comunicativa che il controllo assoluto dei mass media e la propaganda messa in atto dai tiranni consente.
Ad esempio, quando si discuteva sui fatti di Hong Kong, durante i quali la repressione cinese soffocò con la violenza le proteste di chi si opponeva al passaggio dal Regno Unito alla Cina, quest’ultima sosteneva che il regime violento ed oppressivo fosse invece proprio quello americano. In quel periodo, infatti, scoppiava la protesta del black lives matter, conseguente all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di poliziotti violenti[1].
Non solo, venivano sottolineate anche le (giuste) polemiche sulla deriva del cancel culture, che ha assunto negli Stati Uniti toni così intransigenti e discriminatori – in particolare negli ambienti universitari e editoriali – da trasformarsi in vera e propria violenza e caccia alle streghe, al punto che oggi risulta estremamente complicato esprimere posizioni critiche nei confronti delle tendenze ideologiche e culturali dominanti. Certo, non si arriva alla violenza fisica o all’incarcerazione, ma ci sono stati numerosi casi di insegnanti sospesi o rimossi dagli incarichi e di editorialisti banditi dalle redazioni.
È del tutto evidente che questi episodi non possono essere paragonati alla mancanza strutturale di libertà di opinione e dissenso dei regimi autoritari quali Cina, Russia, Turchia, Egitto, nei quali la repressione degli oppositori è pratica strutturale e radicata nei sistemi di governo. Ma non può essere taciuto l’impatto che una rappresentazione di parte, finalizzata a screditare l’occidente, e sicuramente non corretta e non veritiera, può provocare su una platea non certo abituata a sentire più campane o a ricercare fonti di informazione indipendenti.
Grande presa fa anche, sui popoli sottomessi ai regimi dittatoriali, la propaganda anti-occidentale incentrata sulla dissoluzione dei valori etici e dei costumi, sul consumismo e sulla predominanza del lusso, salvo poi – alla prima occasione di reale conoscenza da parte di quelle popolazioni – dimostrare di apprezzare proprio quel modello di vita e ricercarlo con ogni mezzo possibile. Eclatante il caso dei soldati russi che, entrati nelle case ucraine bombardate, sono stati intercettati al telefono mentre si vantavano di rubare computer, scarpe da ginnastica e altri oggetti della “decadenza”.
Delirante, a questo proposito, l’anatema del patriarca di Mosca Kirill che giustifica la guerra di Putin con la crociata contro i costumi dissoluti e l’omosessualità occidentale. Identici i toni dei più intransigenti musulmani, animati da sacro furore contro gli “infedeli”.
Gli Stati Uniti sono un grande paese, e gli Americani un grande popolo. La generazione degli attuali cinquantenni e sessantenni è cresciuta nel mito di Camelot, della contestazione studentesca di Berkeley, dell’opposizione alla guerra in Vietnam, della grande musica della West Coast. Per le generazioni precedenti gli Stati Uniti e il “nuovo mondo” erano una delle destinazioni più gettonate per l’emigrazione, terra di opportunità e di sogno; per quelle successive la Silicon Valley, i college prestigiosi, il basket dell’NBA.
Ognuno di noi ha visto nell’America qualcosa di speciale, un luogo dove si potevano realizzare i sogni e dove veniva premiato il merito, dove ogni aspirazione o interesse potevano essere soddisfatti al massimo grado. E indubbiamente gli USA erano, e ancora per molti versi sono, tutto questo e altro ancora.
Ma sono anche il paese della guerra fredda; della caccia alle streghe maccartiste; della discriminazione razziale; di George Bush, Ronald Reagan e Donald Trump. Il paese che ha sì finanziato la rinascita post bellica italiana ed europea col Piano Marshall, ma anche il golpismo militare dell’America Latina, le guerriglie in Africa e in Medioriente, le rappresaglie in Afghanistan e Iraq, e più recentemente la rivoluzione arancione e il colpo di stato in Ucraina che ha deposto il Presidente filo russo disonesto, ma regolarmente eletto dal popolo in quel martoriato paese.
Dopo la parentesi trumpiana (di fatto uno dei pochi presidenti a non aver foraggiato e finanziato guerre all’estero) dell’America first, con Biden il paese è tornato a ricoprire il ruolo di “gendarme del mondo”, riprendendo la pratica a cui lo stesso Obama (premio Nobel per la pace) era ampiamente ricorso. In questa logica, il conflitto nel cuore dell’Europa – la cui origine è facile far risalire allo stesso Obama - non è altro che uno dei numerosi palcoscenici in cui viene rappresentato il contrasto fra le grandi superpotenze, per il predominio dei mercati, delle vie di comunicazione e dei giacimenti di materie prime.
Comunque vada, questa guerra per gli Stati Uniti non porterà morti o devastazioni, ma al massimo un aumento del deficit pubblico, che comunque avrà finanziato lo sviluppo economico di molti settori produttivi, da quello energetico a quello degli armamenti. E poi ci sarà il grande business della ricostruzione.
Alla fine, come sempre nella storia, per alcuni la guerra sarà distruzione, dolore infinito e perdita di tutto, per altri l’ennesima occasione di profitto e supremazia economica.
[1] Di questi argomenti, come pure degli eccessi del politically correct, abbiamo parlato diffusamente nel nostro recente editoriale
https://www.marcoparlangeli.com/2021/10/22/cancelliamo-lignoranza-non-la-cultura
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