CHI HA PERSO LA GUERRA
Se la Cina ha vinto la guerra, chi l’ha persa è prima di tutto l’Europa
Dopo oltre due mesi di guerra, il risultato dei combattimenti è ancora incerto – come pure la sua durata – ma è già evidente chi ha vinto, peraltro senza sparare neppure un colpo: la Cina. Molto probabilmente, anzi, sarà proprio l’ingresso del Celeste Impero sulla scena politica e diplomatica a segnare la fine della crisi.
Altrettanto evidente è però chi ha perso: l’Europa.
In realtà l’Unione aveva già perso nel momento stesso in cui i tank russi oltrepassavano i confini occidentali e iniziavano l’invasione dell’Ucraina. Non essere riuscita a prevenire ed evitare questa crisi è infatti la prova dell’inconsistenza e della mancanza di autorevolezza del vecchio continente. Lasciare che una spettacolare invasione di tipo otto-novecentesco avvenisse in un paese confinante senza essere capace di fermarla, dimostra che l’Europa - il cui principale e formidabile successo è stata proprio la capacità di mantenere per oltre settant’anni una situazione di pace e progresso al suo interno - non ha più, ammesso che l’abbia mai avuto, un ruolo proattivo e autorevole sulla scena politica mondiale.
I diversi leader (con l’esclusione di Mario Draghi) sono dapprima andati a Mosca sottoponendosi all’umiliazione mediatica del chilometrico tavolo bianco col quale lo zar li teneva a simbolica, oltre che fisica, distanza. Poi hanno imposto sanzioni (giuste) che danneggiano però soprattutto loro stessi, incapaci per decenni di realizzare, o anche solo di ricercare, l’indipendenza energetica dal gigante ex-sovietico. Quindi hanno continuato a inviare aiuti militari e armamenti agli Ucraini che, allo scopo lodevole di rafforzare la resistenza di quel popolo martoriato, di fatto ne prolunga l’agonia e contribuisce a infoltire la lista dei caduti, sia militari che civili.
Ora si apprestano ad assistere, come semplici spettatori, ai tentativi di mediazione di improbabili peace-maker quali il tiranno turco Erdogan o il leader israeliano, palesemente interessato solo a tutelare sicurezza e interessi della forte componente ebraica della popolazione ucraina; fino a sperare – come si diceva sopra – nell’intervento del deus ex-machina Xi Jinping.
L’ultimo atto sarà quello, inevitabile, di accollarsi i costi della ricostruzione del paese, con l’eccezione della parte che resterà acquisita all’impero russo, una volta che sarà accolto nell’Unione dopo che sono state respinte o lasciate morire richieste di paesi quali Turchia, Albania, Serbia, Montenegro, Macedonia, o Moldavia (che non ha ancora presentato la domanda, al contrario della stessa Ucraina, che l’ha fatto solo il mese scorso). Tutto questo dopo che i paesi europei, in prima battuta la Polonia, ma poi a seguire molti altri, avranno gestito l’onda disperata dei profughi.
Sia chiaro: molti di questi eventi sarebbero stati comunque difficilmente evitabili anche con una politica estera più efficace. Ad esempio le sanzioni, che hanno rappresentato l’unica seria alternativa all’entrata in guerra dell’Occidente contro lo zar. Tuttavia posizioni più lungimiranti avrebbero potuto disinnescare la furia bellica dei russi e risparmiare molte vite.
Nei confronti dell’Ucraina, ad esempio, avrebbe potuto essere applicata, prima della crisi, quanto meno una moral suasion per impedire derive estremiste che oggettivamente hanno contribuito a provocare la reazione scomposta dei russi a livello militare. Non che ne siano state la sola causa: probabilmente l’idea di invadere con i carri armati il vicino stato sovrano era già stata accarezzata da tempo, e Putin aspettava solo il pretesto per metterla in pratica. Tuttavia i continui proclami sull’ingresso nella Nato o la situazione di guerra civile del Donbass – che si protrae da oltre otto anni – dove i russofoni sono stati oggetto di vere e proprie vessazioni, lo spazio dato alle frange estremiste hanno aggravato la situazione.
L’Europa ha inoltre palesemente sottovalutato la gravità della situazione, quando i servizi segreti americani già da tempo mettevano in guardia contro l’escalation militare ai confini e definivano imminente l’invasione.
L’errore strategico più grave è stato quello di aver mantenuto, soprattutto da parte della Germania, una dipendenza dalle forniture di gas naturale russo, rinunciando ad investire (come in Italia) nello sfruttamento delle risorse interne o nella ricerca e nello sviluppo di fonti alternative.
Da noi la situazione ha del paradossale. Fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, l’Italia produceva oltre 20 miliardi di metri cubi di gas, che rispetto al fabbisogno attuale di 70-75 miliardi sono meno di un terzo, ma comunque sempre molto meglio dei 5 miliardi che riusciamo ad estrarre oggi. Le trivelle sono state fermate dall’opposizione dei verdi, che hanno promosso nel 2015 addirittura 6 referendum all’insegna del “trivella tua sorella”.
Da allora investimenti e programmi sono stati ovviamente bloccati, col risultato che oggi solo i giacimenti in pianura padana, in parte dell’Adriatico, in Basilicata e Sicilia sono attivi, mentre “sotto terra in Italia c’è metano per 200 miliardi di metri cubi, che al prezzo attuale valgono 160 miliardi di euro”[1]. E, viene assicurato, non si tratterebbe di fare nuovi scavi ma semplicemente di riattivare i giacimenti sotterrati da ambientalisti, inerzia e burocrazia.
È del tutto evidente che in Europa è mancata una regìa comune sul piano della politica estera e della difesa ma anche una strategia condivisa sull’energia, rendendo così scarsamente efficace ogni tentativo di contribuire a risolvere la crisi.
Nei prossimi articoli esamineremo stato di salute e conseguenze della guerra sia per gli Stati Uniti che per i protagonisti diretti, Russia e Ucraina.
[1] Dati forniti da Davide Tabarelli, Presidente di Nomisma (istituto di ricerca bolognese che fa riferimento a Romano Prodi) e riferiti da Stefano Cingolani nell’articolo “La buona trivella” apparso sul Foglio del 19/2/2022, dal quale sono riprese anche le altre informazioni sul settore energetico che qui riportiamo.
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