NON SI FRIGGE CON L’ACQUA
Connessi e spiati
Secondo un vecchio detto popolare “non si frigge con l’acqua”. Ma, come abbiamo imparato la sera di San Silvestro, si può invece friggere con l’aria. Questa storia è significativa e solo apparentemente lontana dai temi che normalmente trattiamo in questo sito. Merita dunque di essere raccontata.
Nelle discussioni a tavola dell’ultimo dell’anno, uno dei commensali garbatamente si lamentava con la moglie di aver voluto comprare una friggitrice ad aria, oggetto – a suo dire – completamente inutile e di fatto mai usato, ma in compenso piuttosto ingombrante. Francamente non avevamo mai sentito parlare di friggitrici ad aria, e chiedemmo qualche spiegazione spinti dalla curiosità. Come si conviene, il telefono cellulare era forse acceso ma certamente non a portata di mano, nella tasca del cappotto sull’attaccapanni.
Si può quindi immaginare la nostra sorpresa quando la mattina dopo, nella posta (che il primo dell’anno era perlopiù di tipo commerciale), fra gli oggetti di cui veniva consigliato l’acquisto da parte di Amazon, c’era appunto una friggitrice ad aria. Naturalmente non avevamo mai cercato un simile oggetto né chiesto lumi ad un motore di ricerca, non sospettandone neanche l’esistenza.
Questo piccolo, piccolissimo, avvenimento ha ispirato una serie di riflessioni, che vorremmo condividere con i lettori. Intanto, facendo mente locale, non è stato difficile risalire a episodi simili avvenuti in passato, sebbene non così eclatanti, o ricordare analoghe storie raccontate da altri, alle quali si faticava a credere. Pur senza voler drammatizzare, ma accogliendo la cosa come una conseguenza dell’era della connessione continua, non si può non ripensare a scenari orwelliani da “grande fratello”, o all’invasiva attività di spionaggio della Stasi, la polizia politica della Germania Est, che entrava a gamba tesa nelle vite private dei cittadini.
Con i cellulari, o con i computer, anche le residue barriere alla privacy sono inesorabilmente disintegrate, e i tentativi di regolamentare la raccolta e utilizzo di informazioni sensibili giustamente disciplinate dalla normativa sul diritto alla riservatezza – di fronte a episodi come quello raccontato – risultano inesorabilmente velleitari e naif.
Firmiamo continuamente i moduli di legge, ma ci piacerebbe sapere chi ha autorizzato Amazon ad ascoltare, selezionare, registrare e utilizzare per scopi commerciali delle conversazioni del tutto private. Inutile cercare di evitare questa invadenza: potremmo (sempre che sia possibile) rinunciare ai telefoni cellulari e ai computer, ma resterebbero una serie di azioni che possono essere facilmente intercettate. Conversazioni telefoniche, utilizzo di carte di credito, pedaggi autostradali, operazioni bancarie, e così via.
A meno di non voler vivere da eremiti fuori del contesto sociale, dobbiamo essere consapevoli che tutte la nostra vita può essere tranquillamente spiata, le nostre telefonate ascoltate, le mail e i messaggi letti. Viviamo in una casa di vetro, e siamo continuamente esposti all’osservazione degli spioni. E quanto più usiamo la tecnologia, tanto più ogni nostra mossa viene registrata e immagazzinata, per poter essere usata all’occorrenza.
Si narra addirittura che tutte le conversazioni telefoniche vengano in qualche modo intercettate e che esistano algoritmi in grado di segnalare l’uso anomalo di determinati vocaboli. Difficile immaginare la gestione di una così gigantesca mole di informazioni, e forse si tratta solo di esagerazioni.
Del resto, è notizia di questi giorni che Il Garante della privacy dell’Unione europea (Edps) ha ordinato ad Europol (l’agenzia europea per la cooperazione di polizia) di cancellare dal proprio database le informazioni trattenute in modo illecito da più di sei mesi e relative a persone senza un chiaro collegamento con un reato o con un’attività criminale. Persino nei compassati ambienti dell’UE si teme evidentemente che, come la Nsa americana, anche la polizia europea possa spiare i cittadini, mettendo in pratica una sorta di sorveglianza di massa.
Anche l’enorme diffusione dei cloud per conservare tutti i documenti, foto, file e simili, non può che generare preoccupazione. Come si può pensare che le nostre memorie siano impermeabili se basta una semplice password ad accedervi? Non ci vorremmo addentrare in un’analisi tecnica, ma è evidente che confidare nell’effettiva riservatezza di tali documenti è del tutto velleitario.
L’abbandono della fisicità (fogli di carta, armadi, al limite anche hard disk di computer non connessi a Internet) a vantaggio dell’immaterialità consente risparmi enormi e una serie di altri vantaggi, ma espone al rischio di vulnerabilità e di accessi non autorizzati. Difficile pensare ad un ritorno di pizzini e archivi cartacei, ma dobbiamo essere consapevoli che la riservatezza è una pia illusione.
Non a caso la cyber-security è oggi una delle richieste più pressanti, e – parallelamente – uno dei settori produttivi di sicuro interesse e sviluppo. Soprattutto chi tratta dati sensibili di clienti, utenti, controparti è esposto al rischio che i propri database vengano violati. Una delle forme più diffuse di pirateria informatica è proprio il sequestro-lampo dei database di aziende ed enti: vengono rubati e resi indisponibili ai proprietari, ai quali viene chiesto un riscatto (da pagare in tempi brevissimi in bitcoin, in modo da impedirne la tracciabilità) per poterne tornare in possesso.
Non solo il legittimo diritto alla riservatezza è di fatto reso impossibile, ma anche la possibilità di utilizzare le informazioni indispensabili al proprio lavoro. A pensarci bene, non un grande progresso.
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