CHINA PERICOLOSA
Cosa sta succedendo nel celeste impero e come influirà sui nostri portafogli
Fra le indicazioni di investimento che abbiamo dato nel tempo, l’unica che sembra essere andata fuori bersaglio è quella relativa all’azionario cinese. In effetti, le ultime settimane sono state decisamente negative per il mercato del celeste impero e addirittura si paventa il crack di una delle principali imprese private, la Evergrande, delle dimensioni di 309 miliardi di dollari, potenzialmente in grado di trascinare nel baratro, con effetto domino, una gran parte dell’economia asiatica e non solo.
Lo spettro della crisi dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti nel 2007/2008 sembra aleggiare sulla vicenda Evergrande, una delle maggiori realtà della “nuova Cina”, con oltre 200.000 dipendenti, impresa di costruzioni e gruppo multi-business attivo nei settori più disparati, dai pannelli solari, all’allevamento di maiali, al cibo per bambini.
Siamo dunque vicini a una grande crisi del mercato cinese e, magari, a una nuova edizione del crollo generalizzato tipo Lehman Brothers? E, in ogni caso, sarà meglio tenersi alla larga dall’azionario Pacifico e vendere i titoli della specie eventualmente posseduti?
Per entrambe le domande, la risposta è no, vediamo perché. Anzi, riteniamo che sia ora il momento per entrare in questo particolare mercato o per aumentarne l’esposizione per chi sia già presente, ovviamente rispettando i criteri di frazionamento del portafoglio e limitazione del rischio dell’asset allocation strategica.
E’ senz’altro vero che l’economia del gigante asiatico ha rallentato il passo rispetto ai (formidabili) ritmi della ripresa post-Covid: la crescita della produzione industriale si è fermata al 6,4%, il livello più basso degli ultimi 11 mesi, come pure in rallentamento è l’aumento delle vendite al dettaglio e il trend degli investimenti. E’ anche vero che la variante Delta ha riportato in primo piano la paura della pandemia, con nuovi lockdown anche se circoscritti ad alcune zone e aumento dei contagi.
La crisi del gigante immobiliare Evergrande è senza dubbio grave e profonda, ed è risaputo che in genere proprio dal mattone prendono avvio le grandi crisi economiche, come pure le fasi di ripresa. Anche il momento di forte impasse nei rapporti con gli USA e, a cascata, con gli altri paesi occidentali, ha senz’altro avuto – e potrà avere in futuro - un impatto negativo sui numeri della macroeconomia cinese.
Tuttavia i ritmi di sviluppo in Cina sono ancora sensibilmente superiori a quelli occidentali; la potenza di fuoco finanziaria dello Stato – con la quale ogni intrapresa economica deve fare pesantemente i conti – è enorme e non limitata da alcun tipo di restrizione o controllo sociale; l’attività immobiliare (come ogni altra attività economica) non è libera, ma soggetta a forti controlli e regolamentazioni; la moneta cinese non è convertibile e tanto meno può essere utilizzata come riserva di valore a livello globale; le autorità monetarie cinesi hanno già attivato in passato forme di sostegno e di espansione monetaria e si apprestano a farlo anche ora (un primo massiccio intervento di pompaggio di liquidità nel sistema, di entità pari a circa 15,8 miliardi di Euro, è stato fatto proprio martedì scorso).
Ma soprattutto la considerazione decisiva è, a nostro avviso, che la caduta del mercato azionario cinese non è la conseguenza di una crisi economica del sistema produttivo, ma è stata originata da una precisa scelta politica, che risale allo scorso anno. Il leader Xi Jinping ha infatti lanciato una campagna contro quella che ha definito “l’espansione irrazionale del capitale” e, al fine di garantire uno “sviluppo ordinato”, ha messo nel mirino i giganti del big tech.
Si tratta di gruppi industriali di natura privata, nati sulla scia dell’apertura capitalista di Deng Xiaoping (definito “leninista pragmatico”) degli anni 80 che anche nella Cina comunista avevano assunto un ruolo centrale macinando profitti enormi e gestendo sostanzialmente senza controllo quantità enormi di dati e informazioni.
Da un lato il governo ha quindi inflitto – per abuso di posizione dominante - multe miliardarie a giganti quali Alibaba (leader planetario dell’e-commerce), Tencent (monopolista nei video giochi e nella vendita di musica online), Didi (la Uber cinese) e Meituan (che controlla la piattaforma social TikTok ed è attiva nel food delivery).
Dall’atro, ancora più significativo, ha fortemente limitato la possibilità di acquisire, gestire ed utilizzare commercialmente (o, peggio, politicamente e socialmente) l’enorme mole di dati e informazioni che questi grandi conglomerati raccolgono. Xi Jinping (non a caso presidente della Central Cyberspace Affairs Commission) sostiene che le informazioni raccolte sul mercato cinese e relative alla popolazione di quel paese non possono essere asset privati, ma sono di proprietà dello Stato e come tali vanno trattate.
Trattandosi di società quotate nel mercato americano, i loro titoli ne hanno ovviamente risentito scontando sui prezzi, oltre ai costi immediati delle sanzioni, anche l’incertezza sulla redditività futura dovuta alla complicazione (per loro) dell’assetto istituzionale cinese.
A ben guardare, però, si tratta di questioni basilari non solo per il mercato asiatico, ma per tutto il sistema economico mondiale: lo strapotere dei giganti e la gestione delle informazioni raccolte sono aspetti sulla cui delicatezza e criticità non esistono dubbi neanche da noi. I cinesi li hanno affrontati sicuramente come schiacciasassi e nel modo tranchant tipico dei regimi autoritari, ma i problemi sono reali e condivisibili anche da parte nostra.
Dobbiamo confessare che non nutriamo alcuna simpatia per la Cina, ma l’azione delle autorità governative di Pechino nei confronti delle big tech ci sembra ampiamente condivisibile nel merito e negli obiettivi assunti, anche se criticabile nel metodo. La limitazione dello strapotere dei giganti della Internet economy e il riappropriarsi della cyber security da parte della pubblica amministrazione sono problemi aperti ai quali anche il mondo occidentale dovrà prima o poi cercare di porre rimedio.
Se poi questo comporterà la caduta dei prezzi di borsa, potremo dire che si tratta di un tributo per garantire ordinato e corretto sviluppo del sistema.
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