MEGLIO VINCOLI CHE SPARPAGLIATI
E’ preferibile uno Stato unitario e accentrato oppure federalista e decentrato?
Pappagone, celebre personaggio televisivo degli anni ’60 nato dalla fantasia di Peppino de Filippo, si chiedeva se siamo vincoli o sparpagliati, intendendo: siamo tutti insieme, uniti, oppure ognuno per conto suo? Prendiamo in prestito la sua “domanda delle cento pistole” per affrontare un altro dei dilemmi basilari sull’organizzazione dello Stato moderno: è preferibile uno stato centralista oppure uno federalista, basato sulle autonomie e sul decentramento?
Dopo aver parlato, negli articoli precedenti, del rapporto fra Stato e mercato, passiamo ad esaminare un’altra caratteristica fondamentale del moderno contratto sociale e, anche in questo caso, non possiamo che premettere che una soluzione valida per ogni stagione e per ogni comunità non esiste. Ci sono oggi, e ci sono stati nella storia, validissimi esempi di Stati ad alto tasso di efficienza e democrazia sia nella forma centralista che in quella federale.
Iniziamo col dire che, in primo luogo, è importante la vicenda storica e culturale delle varie nazioni, per cui alcuni stati nascono con forte impronta federale (pensiamo agli Stati Uniti, alla Svizzera, alla Germania) oppure centralista (la Francia, ma anche il Regno Unito e l’Italia).
Ci sono nazioni che nascono federaliste, e altre con una forte spinta unitaria. In Italia la situazione è senz’altro più complessa e articolata, per cui entrambe le opzioni si ritrovano: un palermitano o un bolzanese, ad esempio, si sentono culturalmente molto più siciliani o altoatesini che italiani. Piemontesi, toscani ed emiliani, d’altra parte, hanno un forte senso nazionale. Il compromesso trovato con la costituzione repubblicana è stato senz’altro una buona soluzione: quelle regioni che, in virtù della loro storia e della cultura diffusa, hanno una forte tendenza autonomista, sono state pensate e istituite come autonome, con statuti speciali e particolare potestà legislativa; le altre sono considerate a statuto ordinario.
Il problema principale è proprio la proliferazione di enti locali e territoriali, con competenze molto spesso sovrapposte e funzioni duplicate: questo è stato molto utile alla sistemazione del vasto sottobosco della politica locale – dove molte seconde linee hanno trovato ottime sistemazioni – ma deleterio per la burocratizzazione e il bilancio pubblico del paese.
Il compianto Ugo La Malfa, riferendosi alla legge che 50 anni fa sancì il battesimo delle Regioni (L. 16 maggio 1970 n. 281), commentò: “abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina”. Nella sua visione, pessimista ma ahimè azzeccata, questi enti avrebbero fatto lievitare oltre misura la spesa pubblica e portato il debito fuori controllo. E La Malfa votò la legge sul presupposto che – allo stesso tempo – venissero abolite le province, cosa come noto mai avvenuta nonostante i molti autorevoli tentativi, ultimo dei quali quello del governo Renzi.
Ma anche se le regioni avessero funzionato benissimo, viene da chiedersi se sia giusto ed efficace che settori importanti della vita dei cittadini, quali ad esempio la sanità o l’istruzione, siano totalmente decentrati. L’impressione è che funzionassero molto meglio quando erano sotto una direzione unitaria, oltre al fatto che il decentramento ha comportato una prevedibile lievitazione della spesa e delle poltrone.
Nel recente caso delle misure per fronteggiare la pandemia da coronavirus, ad esempio, abbiamo assistito allo spettacolo, poco edificante, di regioni che adottavano provvedimenti completamente diversi pur a fronte di analoghe situazioni del contagio. Che la sanità funzioni meglio in alcune regioni piuttosto che in altre non è certo una novità, e anche l’onere a carico dei cittadini è sensibilmente diverso.
Se, come è logico, al decentramento viene affiancata l’autonomia fiscale e impositiva, in modo che ogni regione possa disporre di entrate proprie a fronte del fabbisogno, è evidente che le regioni più povere, con redditi più bassi e minore capacità di spesa, saranno sempre penalizzate rispetto a quelle più ricche. E’ vero che sono previsti meccanismi di trasferimento di risorse dal centro alla periferia, ma allora che senso ha l’autonomia?
Come è evidente nel campo sanitario, l’autonomia produce squilibrio e forti differenze nel servizio che può essere offerto ai cittadini, in relazione alla capacità di introiti fiscali che possono essere ottenuti. Questo il motivo per cui, negli anni ’80, ebbe notevole popolarità l’idea federalista sostenuta dalla Lega Nord, che voleva affermare il diritto di concentrare nel proprio territorio elettivo (il Settentrione d’Italia) le risorse raccolte con l’imposizione fiscale, superiori a quelle del resto del Paese in quanto afferenti alle zone più ricche e produttive.
Sull’onda del favore che tale ideologia riscuoteva, venne addirittura approvata la L. 59/1997 che riformava il titolo V della Costituzione italiana, introducendovi il principio del federalismo, con il quale veniva concessa agli enti locali la più ampia autonomia finanziaria di entrata e di spesa. "I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni – come sancito dall’articolo 119 - hanno risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario".
Passata la “sbornia”, emerse la reale portata delle modifiche apportate, il cui principale risultato, come acutamente previsto da La Malfa, fu quello della crescita esponenziale della spesa pubblica, del numero di poltrone, dei confliti di competenza fra i diversi organi e della burocrazia in ogni aspetto della vita sociale.
Anche se mosso da principi giusti, quale quello della vicinanza del centro decisionale alle comunità interessate, laddove mancava una tradizione storica e culturale di forte autonomia, il federalismo in Italia si è dimostrato, secondo noi, un fallimento.
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