La banca di oggi: Internet e la globalizzazione
Nel primo decennio del nuovo millennio il mercato bancario italiano è radicalmente cambiato per una serie di fattori concomitanti, che vanno dal modo diverso di utilizzare i servizi bancari da parte dei clienti, alle nuove tecnologie, alla competitività sempre più marcata, ai più stringenti requisiti di vigilanza introdotti soprattutto dopo la grande crisi. Conseguentemente, anche il sistema delle banche ha subito un profondo mutamento, e ben difficilmente si potrà tornare alle solide, rassicuranti, immutabili banche di una volta. Chi non ricorda l’immagine tradizionale della banca, con le filiali imponenti come cattedrali, con i saloni ampi e affollati di clienti, con i cassieri a testa bassa a contare le mazzette e i direttori arcigni che litigavano con tutti? E il lavoro in banca come obiettivo di molti ragazzi che, una volta raggiunto, si sarebbero sistemati per la vita, con posto sicuro e ottimi stipendi? Ecco, tutto questo è appunto ora solo un ricordo. Il vecchio assetto basato sulla rete di filiali, sull’operatività tradizionale, sulle progressioni di carriera lente e rassicuranti, sugli utili fatti soprattutto con l’intermediazione creditizia ha lasciato il passo a un nuovo modello di business più leggero e aggressivo, in linea con la multimedialità e la tecnologia digitale, a bassa intensità di lavoro e con margini di redditività per le banche molto più modesti. Oggi gli utenti possono facilmente confrontare la convenienza delle operazioni fra i diversi istituti attraverso i siti web. Le banche meno trasparenti vengono penalizzate subito dalla clientela online, quelle più trasparenti sono obbligate a comprimere i margini per essere competitive. Le filiali sono considerate un costo e non più un asset aziendale. Gli utili tradizionali da intermediazione si sono drasticamente ridotti, anche per effetto delle pesanti rettifiche e svalutazioni di crediti causate dal peggioramento dell’affidabilità creditizia della clientela (la crisi si fa sentire a tutti i livelli). Succede così che le difficoltà o i fallimenti di molte imprese si riflettono immediatamente sui conti delle banche, che a tali imprese avevano concesso prestiti. Non sempre, va detto, con valutazioni di affidabilità impeccabili e indipendenti. Si ricercano fonti di profitto da nuove attività, dalla vendita di nuovi prodotti, dall’allargamento dei volumi e del numero dei clienti che possa compensare le diminuzioni dei margini. La banca diventa un supermercato dove vengono collocati prodotti di investimento o assicurativi, e forniti servizi di consulenza e gestione: tutti articoli sui quali l’azienda guadagna una commissione e tendenzialmente non assume rischi di credito. Il vero termometro dell’attività commerciale diventa allora, appunto, il margine di intermediazione, composto dal margine di interesse a cui si aggiungono i ricavi da commissioni. Si ricercano, come si diceva prima, fonti di profitto da nuove attività e dall’allargamento dei volumi che possa compensare le diminuzioni dei margini di redditività sulla singola operazione. In questo mercato nuovo e più competitivo, le banche che sopravvivono e mantengono un seppur precario equilibrio sono quelle molto grandi, che possono recuperare gli enormi costi di investimento in tecnologia grazie alle economie di scala consentite dalla dimensione. Oppure quelle molto piccole, che riescono a penetrare negli anfratti di mercato e a raggiungere la clientela tradizionale, per quanto in via di estinzione, o quella che punta sul rapporto personale e sulla fiducia. Guardando come si è modificato il sistema delle banche fra la fine del secolo scorso e il primo decennio di quello attuale, ci accorgiamo così che le banche di media dimensione sono pressoché scomparse. Nel 2000 in Italia c’erano tre grandi gruppi – Unicredito, Intesa e San Paolo – con una capitalizzazione, ovvero un valore di borsa, superiore ai venti miliardi di euro; esistevano poi altre 8 banche di medie dimensioni comprese fra i cinque e i venti miliardi (Banca Fideuram, Banca Commerciale Italiana, Bipop-Carire, Monte dei Paschi di Siena, Rolo Banca 1473 e Mediobanca), e infine la pletora delle realtà minori, le cosiddette “banche del territorio” o “della comunità locale”. Già alla fine del 2011 la situazione è cambiata radicalmente: i due campioni nazionali (Intesa San Paolo e Unicredit), con rispettivamente venti e dodici miliardi di capitalizzazione, hanno scavato un profondo divario con gli altri istituti. A parte Mediobanca, che fa un mestiere diverso e comunque capitalizza meno di quattro miliardi, tutte le altre sono sensibilmente sotto i tre miliardi. L’altra grande differenza è una sensibile riduzione dei valori delle banche, un po’ per effetto dello sgonfiarsi della bolla che portò a valutare mediamente ogni sportello fino a dieci milioni di Euro (cifra pagata dal Monte dei Paschi per acquisire Banca Antonveneta nel 2007), molto perché la redditività si è ormai ridotta in modo consistente e irreversibile. La pacchia è finita, e i tempi delle vacche grasse non torneranno certamente. Ma cosa c’è da aspettarsi per gli anni a venire? Dovremo prepararci a un mondo senza banche? O, più probabilmente, a un mondo con banche ancora diverse? La risposta alla prossima settimana.
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