LA DISCESA (POCO ARDITA) DEI TASSI

LA DISCESA (POCO ARDITA) DEI TASSI

Mer, 09/11/2024 - 23:21
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Finalmente la banca centrale USA comincia a ridurre i tassi

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Finalmente ci siamo: dopo oltre due anni di continui e consistenti aumenti dei tassi di interesse, entro il corrente mese di settembre la Federal Reserve Bureau (FED, la banca centrale USA) ne annuncerà la prima riduzione: una mossa che i mercati – non solo quello nordamericano, ma più o meno tutti i mercati finanziari dei paesi occidentali - stanno aspettando da tempo. A ogni riunione della FED si assiste ormai da diversi mesi al balletto dell’attesa di una diminuzione che però fino ad ora non è mai arrivata, come la danza della pioggia in un terreno arido ogni volta che si vede una nuvola all’orizzonte.

Uguale aspettativa anche da parte del mondo produttivo, che si è trovato, all’uscita dalla pandemia, a dover fronteggiare un’impennata dei costi di finanziamento e lo spauracchio di una riduzione dei consumi che avrebbero come ovvio corollario la tanto temuta recessione.

A costo di risultare un po’ banali e di dire cose che possono apparire scontate, può essere opportuno, a beneficio di chi si fosse perso qualche passaggio, riepilogare i motivi per cui l’attesa si è fatta così febbrile e quali sono le conseguenze che ci possiamo attendere da una nuova fase di politica monetaria espansiva.

Intanto occorre premettere che la politica monetaria non è l’unica leva per realizzare gli obiettivi di politica economica, ma che si accompagna (o viene limitata, a seconda dei casi, come in questo) alla politica fiscale e di bilancio. Ovvero, non sono solo i tassi di interesse a determinare o influenzare l’andamento del reddito e della produzione nazionale, ma anche il livello di spesa pubblica e quello della tassazione. E per quanto riguarda la spesa pubblica, questa ha continuato imperterrita ad aumentare.

In effetti, per tutti questi anni, e senza soluzione di continuità, la politica di bilancio è sempre stata orientata (negli USA ma anche in Cina e in Europa) a una forte espansione – ulteriormente cresciuta con i costi delle guerre in corso -, nonostante il rischio di far aumentare l’inflazione e quindi vanificare le restrizioni monetarie.

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Inizialmente la spesa pubblica era mantenuta elevata per aiutare il sistema economico a fronteggiare la stagnazione causata dalla pandemia, e ha contribuito in maniera decisiva ad uscire dalla palude in cui l’economia mondiale si trovava. Solo che è estremamente difficile far rientrare il dentifricio nel tubetto, ovvero ridurre drasticamente il contributo del Tesoro al Prodotto Interno Lordo una volta che lo si è aumentato. Vorrebbe dire licenziare il personale che si era assunto, ridurre l’assistenza a chi ne ha bisogno, ridurre la spesa pensionistica, contenere la spesa sanitaria, limitare la spesa per la scuola e l’istruzione, e così via. E tutto questo, mentre si avvicinano a grandi passi le elezioni presidenziali in USA, o le varie tornate elettorali in Europa.

A combattere l’inflazione resta quindi solo la politica monetaria, decisa da gnomi che non sono sottoposti al giudizio degli elettori. O meglio, resta solo uno degli strumenti di politica monetaria, il tasso di interesse, giacché in effetti la quantità di moneta in circolazione non è mai stata seriamente ridimensionata.

Così, quel tasso che dal 2020 (appena scoppiata la pandemia) al 16/3/2022 era rimasto fisso allo 0,25%, è gradualmente aumentato a ogni seduta della BCE fino ad arrivare all’attuale 5,25-5,50%, il livello più altro degli ultimi 23 anni. Solo con la riduzione dell’inflazione che si è registrata negli ultimi mesi, si sono iniziate a sentire le sirene di un allentamento della morsa.

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Aumentando il tasso di interesse, l’inflazione si riduce perché la domanda (di beni di consumo e di investimento) si comprime. Consumatori e imprese spendono meno (i crediti al consumo e i prestiti all’industria sono più cari) e la pressione sui prezzi si allenta. Ma questo porta anche il rischio di una recessione: meno consumi, meno investimenti, e quindi meno reddito e meno produzione per l’economia nazionale.

Con la recessione le imprese si aspettano di fare meno utili (venderanno meno e quindi guadagneranno meno) e le società quotate distribuiranno meno utili: per questo la borsa teme gli alti tassi di interesse. Non solo: se crescono i tassi, diminuisce il valore delle obbligazioni e quindi anche la percezione di ricchezza da parte di chi le possiede, alimentando la depressione della domanda.

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Ora è il momento giusto per ridurre i tassi: l’inflazione è sotto controllo (non ancora al livello obiettivo del 2%, ma molto vicino, e attesa al 2,2% l’anno prossimo e al 2% nel 2026) e il reddito cresce, poco ma cresce. Il 2024 dovrebbe chiudersi con +2,1%, e nel 2025 e 2026 le previsioni sono per un +2,5%. E infatti gli analisti prevedono una riduzione dei tassi di 0,50% fino a fine anno e di ben 1,5-2% per il 2025.

Se questo succede, è probabile che la crescita del PIL si riveli anche maggiore di quanto previsto, ma è anche possibile che l’inflazione rialzi la testa e che torni a farsi minacciosa. In tal caso, il sentiero virtuoso delle diminuzioni subirà necessariamente un brusco arresto.

Anche la politica guarda con molta attenzione alla dinamica dei tassi: quando crescono, si devono pagare interessi maggiori ai detentori di titoli di Stato e per questa via si aumenta il deficit e quindi il debito pubblico: una prospettiva difficilmente gestibile da stati molto indebitati come il nostro. E che renderebbe molto difficile – dati i vincoli di bilancio – mantenere questi livelli di spesa pubblica.

Ecco perché, approssimandosi la scadenza elettorale, la riduzione dei tassi è diventata se non certa, di sicuro molto probabile. L’ultima rilevazione USA, che indica un livello di inflazione in calo (siamo al 2,5%) ma meno di quanto era previsto (o sperato), dovrebbe comunque consentire una prima limatura di 0,25%: Poco, meno di quanto molti si attendevano, ma il segnale di inversione di tendenza è comunque importante e da non sottovalutare.