IL LAVORO SBANDA IN CURVA (DI PHILLIPS)
I vecchi strumenti di analisi della politica economica sono diventati obsoleti
Torniamo a parlare di lavoro, sia dal punto di vista del suo impatto sul sistema economico (e quindi del rapporto fra occupazione, domanda e inflazione), sia come tradizionale momento di autorealizzazione e formazione della personalità, oltre che strumento di sostentamento. C’è da chiedersi se (e quanto) lavoro ci sarà nei prossimi decenni e, soprattutto, come sarà rispetto a quello che abbiamo conosciuto finora.
Il problema, come si vede, è complesso e delicato e abbraccia una serie di campi decisivi per la qualità della vita, soprattutto quella delle generazioni future. Una cosa è certa: l’occupazione tradizionale, il concetto di lavoro che con qualche adattamento sopravvive dai tempi della rivoluzione industriale, ha i giorni contati. Non è detto che questa sia una disgrazia epocale, perché certamente nasceranno nuove forme di occupazione e modelli di vita diversi, e magari si potrà realizzare l’utopia dell’ozio creativo e lo spostamento del baricentro delle nostre vite verso attività più piacevoli, interessanti e formative. Con questa prospettiva occorre però fare i conti, perché anche nella teoria socioeconomica la vecchia strumentazione di analisi sta mostrando già ora la sua inadeguatezza. Vediamo perché.
Gli economisti che si sono formati a partire dalla metà del secolo scorso hanno metabolizzato alcuni concetti entrati a far parte del tooling non solo degli analisti e commentatori, ma anche – purtroppo - dei banchieri centrali. Molti di questi concetti si sono dimostrati, nel corso dei decenni, inadeguati e obsoleti. Uno dei pilastri dell’economia classica che si può considerare superato è la cosiddetta “curva di Phillips”, economista di origine neozelandese che ha studiato e teorizzato sul rapporto fra disoccupazione e inflazione.
Questa teoria economica suggerisce che esista una relazione inversa tra inflazione e disoccupazione a breve termine: quando l'inflazione è bassa, la disoccupazione tende ad essere alta, e viceversa.
La relazione tra inflazione e disoccupazione può essere spiegata in questo modo: quando c'è una bassa disoccupazione, la domanda di lavoro supera l'offerta, il che spinge al rialzo i salari. Con salari più alti, le imprese aumentano i prezzi dei beni e servizi per coprire i costi del lavoro più elevati. Questo comporta un aumento dell'inflazione.
D'altra parte, quando la disoccupazione è alta, vi è una maggiore disponibilità di manodopera rispetto alle opportunità di lavoro, il che esercita una pressione verso il basso sui salari. Le imprese possono ridurre i prezzi dei beni e servizi per attirare i consumatori e stimolare la domanda. Ciò porta a una diminuzione dell'inflazione.
In altre parole, una diminuzione dell'inflazione potrebbe essere associata a un aumento della disoccupazione e viceversa. Tuttavia, questa relazione può variare nel lungo termine a causa di diversi fattori.
Se un'economia sta affrontando un'elevata inflazione – come nell’attualità - e si decide di ridurla, è possibile utilizzare politiche monetarie e fiscali per farlo. Alcune delle strategie comunemente adottate includono:
Politica monetaria restrittiva: le banche centrali possono aumentare i tassi di interesse o ridurre la quantità di denaro in circolazione nel sistema finanziario. Questo può contribuire a rallentare la spesa e l'attività economica, riducendo così l'inflazione.
Politica fiscale restrittiva: Il governo può ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse per ridurre la domanda aggregata nell'economia (l’esatto contrario di quello che stanno facendo i governi nell’attualità). Questa misura può influenzare l'inflazione attraverso il controllo dei livelli di spesa e del deficit pubblico.
Controllo dei prezzi e delle tariffe: Il governo può intervenire per controllare direttamente alcuni prezzi o tariffe, come quelli dell'energia o dei servizi pubblici. Questo può contribuire a limitare l'aumento dei prezzi e, di conseguenza, l'inflazione.
L'effetto reale di queste politiche sulla disoccupazione dipende dalla situazione specifica dell'economia e dalle reazioni dei vari attori economici. Se queste politiche restrittive riducono la domanda aggregata in modo significativo, potrebbero causare effettivamente una diminuzione delle attività economiche e portare a una crescita della disoccupazione.
Tuttavia, un’accorta politica economica e monetaria volta a ridurre l'inflazione non deve necessariamente aumentare la disoccupazione. Gli economisti e i responsabili politici cercano spesso di trovare un equilibrio per raggiungere obiettivi di stabilità dei prezzi senza causare gravi danni all'occupazione e all'economia nel suo complesso.
D’altra parte, nel 1970, molti Paesi sperimentarono elevati livelli di inflazione e disoccupazione, fenomeni noti con il termine di stagflazione. Le teorie basate sulla curva di Phillips non erano quindi in grado di giustificare tale osservazione, e la curva di Phillips divenne oggetto di attacchi da parte di un gruppo di economisti (i cosiddetti monetaristi, capeggiati da Milton Friedman) secondo i quali l'evidente fallimento delle politiche basate sulla curva rendeva necessario il ritorno a politiche economiche non interventiste, di libero mercato. Di conseguenza, l'idea che sussistesse una relazione semplice, prevedibile e persistente tra inflazione e disoccupazione fu abbandonata da gran parte dei macroeconomisti.
Alcuni studiosi credono che la ragione principale che ha causato il fallimento della curva di Phillips sia la sua origine statistica basata su dati solo britannici e tedeschi.
Anche la situazione attuale sembra sconfessare il dogma di Phillips: siamo infatti a un livello (almeno in USA) di piena occupazione, con inflazione al massimo degli ultimi 20 anni, tassi di interesse aumentati esponenzialmente nell’ultimo anno e reddito ancora sostenuto. Fino ad ora la piena occupazione non ha innescato la dinamica di crescita salariale che ci si attendeva, e quindi non ha prodotto ulteriore inflazione.
Si tratta ovviamente di una situazione molto particolare e transitoria, anche perché, se è vero che le politiche monetarie dei paesi occidentali sono tutte orientate alla restrizione, la politica fiscale continua invece ad essere espansiva, se non altro per l’effetto inerziale delle politiche di incentivo post-pandemia.
Tutto questo per dire che le autorità monetarie devono abbandonare la rotta della curva di Phillips, che porterebbe ad ulteriori aumenti dei tassi e restrizioni di liquidità, perché non è affatto vero che – per questa sola via – l’inflazione si possa combattere senza eccessivi contraccolpi sul lavoro.
Nel prossimo articolo ci soffermeremo invece sugli aspetti qualitativi dell’evoluzione del mercato del lavoro: anche in questo caso siamo di fronte a cambiamenti epocali.
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