FÉR E DSFÉR L’É TÓTT UN LAVURÈR
Le autorità monetarie hanno prima inondato i sistemi di moneta, provocato l’inflazione e ora stanno facendo marcia indietro
Molti hanno paragonato questi anni ’20 agli anni ’70 del secolo scorso, caratterizzati da un’inflazione in rapido aumento, una situazione economica complessivamente in crescita, anche se in modo disordinato e il mondo dilaniato da guerre e divisioni, la più importante delle quali la guerra fredda fra USA e Unione Sovietica.
Il paragone pare, in verità, forzato: in primo luogo cause e dinamica dell’inflazione attuale sono decisamente diverse da quella di allora; inoltre, in quegli anni non c’era stata la pandemia, anche se ci fu un’ondata di colera che provocò molte preoccupazioni. La guerra, infine, oggi è purtroppo più vicina di allora, ma le due superpotenze coinvolte sono sempre le stesse.
E ricordando come finirono quei terribili anni ’70, col terrorismo e le Brigate Rosse, speriamo davvero che la storia non si ripeta.
Venendo alla situazione odierna, torna invece in mente un titolo di giornale dei primi anni ’80, quando l’inflazione viaggiava a ritmi forsennati, oltre il 20% all’anno. Quel giornale, un settimanale di economia che ora non esiste più, sparò in copertina “L’inflazione è morta” e, ovviamente, nell’interno veniva spiegata la teoria secondo la quale il mostro avrebbe avuto, se non i giorni, almeno i mesi contati. Poiché in genere gli economisti sono bravissimi a prevedere il passato, ma con il futuro spesso si sbagliano, questo fatto – totalmente anomalo – ci colpì. In effetti dopo quello scoop, il mostro cominciò a perdere vigore, tanto che nel 1984 era già scesa al 5% e, anche in seguito, fino ai giorni d’oggi, non aveva più avuto ritorni di fiamma.
Quel particolare ci è ritornato in mente perché anche oggi, al livello massimo di oltre il 10% da noi, abbiamo modo di ritenere che il picco sia stato raggiunto e che l’inflazione comincerà a perdere vigore. Ciò non significa che i prezzi diminuiranno, ma solo che cresceranno meno velocemente rispetto al passato, per poi plausibilmente attestarsi a quel livello del 2/3% che rappresenta uno zoccolo duro difficilmente scalfibile, e che oltretutto è il benchmark dichiarato delle banche centrali.
L’inflazione di oggi, si diceva, ha origini del tutto diverse. Si potrebbe dire che è figlia della pandemia, nel senso che le autorità monetarie, dopo l’ondata di coronavirus, hanno riversato sui sistemi economici di tutti i paesi colpiti con lo scopo di fornire benzina per agevolare la ripresa.
Lo scopo è stato raggiunto, tanto che nell’arco di un anno (in USA) o poco più (in Europa) sono stati recuperati i livelli di PIL del periodo ante pandemia. A quel punto il problema era diventato il tasso di inflazione, andato fuori controllo proprio per l’eccesso di liquidità indotta, rispetto a un’offerta di beni e servizi ancora insufficiente.
Il meccanismo, sotto il profilo economico, è molto semplice. Se i beni disponibili rimangono costanti in termini di quantità, mentre i mezzi di pagamento (grazie alla liquidità indotta) – supponiamo – aumentano del 30%, coloro che detengono quei mezzi saranno disposti a pagare un prezzo maggiore pur di ottenerli. Col tempo le aziende si attrezzano per aumentare i livelli produttivi, e la situazione dovrebbe tornare in equilibrio, ma nel frattempo i prezzi salgono quasi in modo automatico.
Questo è il motivo per cui, dall’inizio del 2022, le stesse autorità monetarie hanno cominciato a stringere i cordoni della borsa e a drenare la liquidità, per riportare i buoi nella stalla. Come dice un vecchio proverbio bolognese, “Fèr e dsfèr, l'é tótt un lavurèr”, ovvero: fare e disfare, è tutto un lavorare.
La conseguenza temuta di questa totale inversione di politica monetaria è ora la recessione. La politica monetaria restrittiva ha due strumenti operativi: l’assorbimento di moneta (attraverso operazioni di vendita di titoli sul mercato) e l’aumento dei tassi di interesse. Entrambi gli strumenti hanno, però, l’effetto collaterale di frenare la produzione: tassi di interesse più alti rendono più costosi i prestiti per le imprese e per le famiglie, così il credito diminuisce e, con esso, anche gli investimenti e i consumi. La spirale della recessione può così cominciare ad avvitarsi.
Tuttavia, in questa fase ci sono alcuni elementi che rendono le prospettive meno negative.
Intanto la cura da cavallo sembra dare i suoi buoni risultati: i prezzi hanno cominciato a rallentare; in USA l’ultima rilevazione è al 6,5% (dal 7,1% di novembre), il più basso da 14 mesi, e il dato “core” (cioè quello depurato dei prezzi dei generi alimentari e dei prodotti energetici) si è fermato al 5,7% dal 6,1% del mese scorso. Ma i numeri nascondono una realtà ancora meno preoccupante: quelli che crescono sono i prezzi dei servizi, che però comprendono anche gli “affitti figurativi”, ovvero i proventi del settore immobiliare. Il real estate in realtà ha un ritardo fisiologico nella rilevazione, e la sensazione degli addetti è che il rallentamento debba ancora emergere dai numeri.
Inoltre, i prezzi degli energetici, in prima linea petrolio e gas naturale, sono diminuiti sensibilmente grazie alle temperature relativamente alte di queste settimane e al fatto che le scorte erano già state ampiamente ricostituite, elementi che hanno frenato la domanda e quindi i prezzi. Sul versante salari, parimenti, la piena occupazione in USA non ha tuttavia portato tensioni sul versante salariale e, con la recessione in vista, non si sono rilevati gli aumenti che ci si potevano aspettare.
Tutto lascia supporre, in definitiva, che l’inflazione sia tornata sotto controllo e questa è un’ottima notizia per i mercati finanziari, che cominciano a sperare (nonostante le ripetute smentite dei banchieri centrali) che la linea dura di politica monetaria possa essere allentata, soprattutto per quanto riguarda l’aumento dei tassi, che ora– forse in modo troppo ottimistico – è previsto in rallentamento. E quando i tassi aumentano, notoriamente, i mercati soffrono.
Ma per avere un’idea di come si comporteranno i mercati, è necessario vedere cosa succederà sul fronte recessione. Anche qui qualcuno comincia a sperare che i timori, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, siano esagerati. Ma se per l’inflazione la guerra sembra vinta, il fronte recessione è ancora aperto ed è bene non farsi troppe illusioni.
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