ORA ET LABORA
Lo sciopero generale fuori dal mondo
Fra i ricordi del periodo universitario, è sempre molto vivo quello in cui, in occasione di un esame - negli ormai lontani anni ’80 del secolo scorso - un candidato chiese di poter sostenere per primo la prova in quanto era studente lavoratore e aveva una sola giornata di permesso, per cui sarebbe stato in difficoltà se si fosse dovuto trattenere anche il giorno seguente. La risposta del professore, che ovviamente declinò la richiesta, fu: “Si ritenga fortunato che ha un lavoro”.
Naturalmente, nella risposta piccata del docente, non era difficile riconoscere la diffidenza verso la diffusa pratica di svolgere un’attività lavorativa mentre si studiava, senza frequentare le lezioni. Equivaleva – nella lettura dei puristi - a considerare l’università come una fabbrica di esami e di diplomi, magari per migliorare la posizione lavorativa e l’anzianità, ma con poco o nullo contenuto formativo.
A parte lo snobismo intellettuale (giustificato peraltro anche dal fatto che negli altri paesi evoluti la figura dello studente-lavoratore era pressoché sconosciuta), resta il fatto che già allora, una quarantina di anni fa, il lavoro era considerato un privilegio. Almeno il lavoro stabile, quello a tempo indeterminato, con il rispetto dei diritti e le possibilità di avanzamento nella carriera. Quello che accompagnava fino alla pensione e che, salvo eventi tragici, si poteva perdere solo licenziandosi.
Da allora la situazione è ulteriormente, e notevolmente, peggiorata. Per un giovane studente millennial, anche se molto bravo e preparato, trovare un impiego è poco più che un miraggio, “sistemarsi” (come si diceva una volta) una corsa ad ostacoli che rende pressoché impossibile fare progetti di vita e costituire una famiglia. Se trova un’occupazione, molto spesso si tratta di lavoro precario, sottopagato, a tempo determinato, senza diritti né garanzie.
Sotto il profilo della tutela dei lavoratori, siamo tornati indietro di molti decenni, e il futuro non promette niente di buono. Rispetto alla moltitudine dei precari, senza lavoro, esodati o licenziati tout-court, coloro che hanno un impiego stabile al giorno d’oggi sono dei veri privilegiati.
Più o meno analogo il discorso per le pensioni. Coi tempi che corrono, anche chi gode di una pensione (a parte quelle minime, ridicole e insufficienti per vivere) purtroppo deve ritenersi fortunato, perché per molti degli attuali lavoratori sarà ben difficile poter contare su un reddito costante negli anni della vecchiaia. Il sistema pensionistico è infatti sotto stress e i contributi dei lavoratori – con l’attuale trend demografico ed economico – sono molto inferiori ai trattamenti erogati. Quanto potrà durare?
Ecco perché oggi parlare di lavoratori e pensionati come categorie deboli, da tutelare e garantire, suona un po’ anacronistico e certamente ingiusto nei confronti di chi un lavoro non ce l’ha, difficilmente lo potrà trovare, e meno che mai potrà contare su una giusta pensione.
Ma anche nei confronti di chi ha lavori precari, autonomi (le cosiddette “partite IVA”) e deve ogni giorno conquistarsi un reddito minimo per sopravvivere.
Nell’Italia di oggi, la scelta dei sindacati CGIL e UIL di ricorrere allo sciopero generale per difendere lavoratori e pensionati, è decisamente fuori tempo e sorprendente, nel momento in cui il sistema sta faticosamente cercando di uscire da una crisi epocale grazie a risorse comunitarie che stanno affluendo per sostenere la ripresa. Dall’esterno, la decisione dei leader sindacali sembra più motivata dall’esigenza di “marcare il territorio” e recuperare uno spazio ormai perduto che non dalla genuina difesa dei più deboli. Perché i veri deboli non possono né scioperare, né farsi sentire in alcun modo.
Forse c’è la volontà di creare un nuovo organismo politico di opposizione al governo di larghe intese, che – facendo leva su una struttura consolidata e organizzata come quella sindacale e pescando nelle acque del massimalismo, dell’anticapitalismo, del populismo e del no-vaxismo – si ponga come punto di riferimento di chi non si riconosce nell’autorità costituita.
Tutto questo riuscendo a creare una spaccatura dell’unità sindacale (la CISL, il sindacato di matrice cattolica, si è infatti dissociata dall’iniziativa) e di mettere in difficoltà la sinistra tradizionale, rendendo difficile la posizione del PD che appoggia il governo ma affonda le proprie radici nel sindacalismo storico.
La scelta giusta, di questi tempi difficili, è quella di sostenere gli sforzi del governo (che peraltro ha messo in atto una strategia di reale ascolto del sindacato, anche se ben lontano da consociativismo e concertazione) e di contribuire a massimizzare l’utilità delle risorse disponibili a vantaggio soprattutto delle parti realmente più deboli della popolazione.
Altrimenti dovremmo davvero rassegnarci all’ora et labora, parafrasando la regola benedettina che imponeva ai monaci una vita di contemplazione e fatica.
Ma stavolta, accanto a chi lavora, rischierà di esserci solo chi prega.
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