False evidenze, bugie e pregiudizi (seconda parte)
Si conclude questa settimana il contributo di Filippo Miraglia, proseguendo la testimonianza avviata comn il precedente articolo, dove avevamo visto che sul tema dei migranti si parla molto spesso per luoghi comuni, enunciando verità presunte, o “false evidenze” che si ritiene non abbiano bisogno di dimostrazione. La realtà dei numeri è invece molto diversa, e racconta di un’attività di accoglienza molto inferiore al passato e neanche proporzionata alle dimensioni del Paese e dell’Unione Europea. Oggi Miraglia ci parla della realtà dei centri di accoglienza straordinaria (CAS) gestiti dalle Prefetture e del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), con dotazioni finanziarie drasticamente in calo.
Come abbiamo cercato di dimostrare nel precedente articolo con la logica dei numeri, la retorica pubblica dell’invasione alla quale commentatori, giornalisti e politici fanno quasi sempre ricorso, è una evidenza molto falsa e strumentale. Una delle conseguenze dell’uso strumentale del tema dell’immigrazione per ragioni elettorali è la gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Una questione che riguarda pochissime persone ma che ha alimentato una forte criminalizzazione degli stranieri, di chi opera nel campo della solidarietà sociale (le ONG, il mondo dell’associazionismo e del volontariato) e di chi si occupa di diritti e tutela dei rifugiati. Va detto innanzitutto che sul totale degli stranieri residenti oggi in Italia, stimati intorno a 5,3 milioni alla fine del 2017 (in calo rispetto al 2016), quelli riconducibili al diritto d’asilo (richiedenti asilo e titolari di un titolo di soggiorno tra quelli previsti dalla nostra legislazione a seguito della domanda d’asilo) sono circa 350 mila persone, ossia circa il 7% del totale degli stranieri. Dal 2011 ad oggi quindi il dibattito pubblico si è concentrato su questa percentuale praticamente insignificante, influendo però negativamente sulle condizioni di tutti gli stranieri presenti. Se guardiamo al sistema d’accoglienza pubblico, oggi diviso tra ex SPRAR (SIPROIMI), CAS (centri d’accoglienza straordinari) e grandi centri (CARA, CDA e CPR), la loro gestione è stata da sempre caratterizzata da un approccio emergenziale che ha prodotto disagio sociale e sprechi, oltre che razzismo, ingiustizie e corruzione. Un approccio che è amplificato con le recenti modifiche legislative introdotte dalla legge Salvini (legge 132/2018), con particolare riferimento all’art.12. L’articolo 12 infatti dispone un forte ridimensionamento del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), istituito nel 2002 e che assicura attualmente circa 35 mila posti, coinvolgendo circa 1.200 comuni italiani, limitandone la funzione all’accoglienza di chi già ha ottenuto la protezione internazionale e dei minori non accompagnati. Tutti gli altri, cioè coloro che sono in attesa di decisione sulla domanda di protezione (circa il la metà degli attuali ospiti dei centri SPRAR), dovranno essere sistemati nei Centri di accoglienza straordinaria (o CAS), gestiti dai prefetti e non dalle amministrazioni locali, che seguono protocolli di emergenza e hanno standard di accoglienza più bassi e nessun obbligo di rendicontazione. È una differenza sostanziale e non semplicemente nominalistica o organizzativa. Nel sistema SPRAR gli enti locali, in maniera volontaria, presentano progetti di accoglienza al Ministero dell’Interno che, con l’ausilio del Servizio Centrale, gestito dall’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani), li valuta e li finanzia attraverso il Fondo Nazionale Asilo. I Comuni gestiscono poi direttamente, più spesso attraverso enti del Terzo Settore, i progetti sul territorio. Le risorse richieste per finanziare i progetti sono spese secondo linee guida e regole molto stringenti. Solo quanto effettivamente speso viene rimborsato. Ogni spesa va documentata e la documentazione deve essere raccolta e inviata al Servizio Centrale che ne verifica la congruenza. Per ogni voce di spesa ci sono dei limiti, superati i quali le spese non possono essere recuperate. Ad esempio la voce personale non può superare il 40 per cento della spesa totale e deve essere rendicontata con contratti e buste paga. Se si supera il 40 per cento, la spesa per il personale viene rimborsata solo fino al limite previsto. I centri SPRAR sono, nella quasi totalità dei casi, normali appartamenti; case inserite senza alcuna straordinarietà nel tessuto urbano, non ghetti. Le persone accolte firmano un contratto d’accoglienza che prevede diritti e doveri e sono responsabili della casa nella quale vivono. Fin dal primo giorno avviano, con il sostegno degli operatori sociali, un percorso verso un’autonoma inclusione sociale: formazione linguistica, formazione lavorativa, tutoraggio e accompagnamento per l’integrazione sociale. I richiedenti asilo o rifugiati sono seguiti dagli operatori singolarmente. L’ente gestore si fa carico di verificare la condizione psicologica della persona in un ambiente protetto, prendendosi il tempo necessario per far emergere eventuali traumi e violenze subite (sappiamo quanto è difficile, ad esempio, per una donna raccontare le violenze subite, che sono purtroppo una prassi ordinaria durante la loro permanenza in Libia). Quest’attenzione consente di dare consistenza alla parola protezione, che è impossibile nei CAS, che sono per lo più enormi strutture, in cui le persone vengono accolte in camerate di molti letti, con servizi collettivi e trattate, salvo pochi casi, come numeri (un tanto pro capite e pro die). Con la conseguenza che molti casi, in mancanza della cura necessaria per ogni persona accolta, si trasformano in disagio sociale. Nei grandi centri d’accoglienza molti richiedenti asilo diventano “emarginati” o vengono abbandonati senza alcun progetto che consenta di costruire un percorso di uscita autonomo. Sono quelli che si vedono in giro a chiedere l’elemosina e a girare senza meta per gran parte del loro tempo. Un disagio sociale che alimenta il razzismo e che quindi è ben visto dalle destre xenofobe: materia prima per le loro campagne elettorali perenni. Nei centri SPRAR ogni persona accolta viene presa in carico e la sua storia emerge con tempi e modi che rispettano la sua dignità (pur considerando i limiti e le contraddizioni di ogni gestione concreta). La storia che emerge consente di prepararsi con coerenza al colloquio con la Commissione Territoriale. Ciò evita che ci sia una forte distanza tra il risultato del colloquio e la storia delle persone. I grandi centri invece producono molti più dinieghi e, quindi, molti più ricorsi ai tribunali, con conseguente aggravio della spesa pubblica, sia per l’impatto sul sistema giudiziario che per il prolungamento dell’accoglienza e dell’attesa. Quanto ai CAS, le ingenti cifre in ballo e le gare d’appalto indifferenziate fanno sì che vi partecipino assai spesso soggetti incompetenti e senza esperienza con l’unico interesse a fare utili (investiti da alcuni in modo corretto, da molti per esclusivo guadagno personale). È esperienza comune che alle gare partecipino soggetti che non hanno alcun interesse per il bene pubblico, se non addirittura soggetti legati alla criminalità, come dimostra il caso di Mafia capitale a Roma. Infine è bene tenere conto che i CAS delle prefetture, non hanno alcun interesse, se non casualmente, a coinvolgere il territorio, gli enti locali e le associazioni. Anzi spesso, per i vincitori di gare che arrivano dall’esterno, gli interessi del territorio sono soltanto ostacoli, con conseguente tendenza a escluderli. La conclusione è evidente. Con il passaggio della maggior parte dei richiedenti asilo dai centri SPRAR ai CAS si demolirà il sistema d’accoglienza pubblico locale, consegnando a interessi privati le risorse dell’accoglienza e generando disagio e conflitti che le comunità locali e i comuni dovranno pagare.
Filippo Miraglia (*)
(*) Filippo Miraglia, 54 anni, vive in provincia di Rimini con la moglie Monia e tre figli maschi. Laureato in fisica, ha insegnato per oltre un decennio nelle scuole secondarie superiori. Nel 1993 inizia il suo impegno nell’Arci a Pistoia, dopo alcuni anni di militanza nell’associazione Nero e non solo, che in quell’anno confluisce nell’Arci. In Nero e non solo inizia a occuparsi della difesa dei diritti dei migranti, impegno che proseguirà nell’Arci, diventando nel 2004 responsabile nazionale immigrazione dell’associazione. Militante antirazzista e per i diritti delle minoranze e delle persone di origine straniera fin dalla seconda metà degli anni ottanta, ha contribuito alla promozione di diverse campagne contro il razzismo e in favore dei migranti, fra cui la campagna L’Italia sono anch’io. Attualmente lavora a Roma come responsabile immigrazione dell'ARCI e dal 2016 è anche presidente di ARCS, la ONG dell'ARCI che si occupa di cooperazione e solidarietà internazionale.
Commenti
Questo articolo è a mio avviso molto interessante perché entra nel merito specificio dei meccanismi dell’accoglienza per i migranti chiarendo molto interessi economici, volontà politiche e obiettivi per l’integrazione. Finalmente un articolo che scioglie un po’ la intrigata matassa di questo tema scottante lasciando finalmente al lettore la possibilità formativa di un opinione personale sostenuta da dati obiettivi
Grazie Maria Chiara, questo era proprio lo scopo della mini serie
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